La morte della donna rappresenta l’esito / la conseguenza di atteggiamenti e/o pratiche sociali misogine.
Questa la definizione di femminicidio data per la prima volta nel 1992 dalla criminologa statunitense Diana Russell.
Significa che la donna viene uccisa e il movente è il fatto che fosse una fidanzata, una moglie, una madre... una donna.
Risulta ancora più evidente dal fatto che a ucciderla sia stato il suo compagno, il suo partner, suo marito, il suo convivente. Qualcuno che amava e con cui aveva una relazione.
Le vittime di femminicidio non hanno fatto niente di diverso da quello che io o te facciamo quando amiamo… ma è proprio la loro presenza in quanto donne "poco ubbidienti" che dava fastidio. Così come un tradimento (vero o immaginato) o la voglia di libertà o di rispetto.
Tutte situazioni per cui, in passato, ci si lasciava, e basta. OgnunƏ per la sua strada.
Invece, oggi, speso si uccide, brutalmente.
In Italia non è considerato reato autonomo (rientra negli omicidi) e si parla sempre poco, nelle sedi istituzionali, di violenza di genere, nonostante siamo sempre ai primi posti in Europa per numero di femminicidi. Se ne contano cento all'anno e se ne parla sempre troppo poco, nonostante la numero 107 del 2023, Giulia Cecchettin, abbia sollevato un’ondata di commozione e sdegno e “rumore” che si sperava servisse a velocizzare le misure legali. E invece no.
Quella che ha continuato a diffondersi sempre di più è stata la narrazione del raccontare questi omicidi come raptus di follia o come gelosia: la donna morta non può più difendersi, quindi tanto vale salvaguardare l’innamorato dicendo che era disposto a tutto per lei e la cui pazienza è stata messa duramente alla prova. L’idea del pazzo istintivo e geloso ci rassicura di più del pensare che non ci sia niente di insano ma solo crudeltà contro il genere femminile nonché una violazione dei diritti umani.
Non ne posso più di questa narrazione. Diciamo le cose come stanno. E spieghiamo bene cosa significa femminicidio.
Lo ripeto: vieni uccisa perché sei fidanzata o moglie o madre… perché sei donna. Non conta cosa stessi facendo, come fossi vestita, che scelte di vita stessi portando avanti. Sei morta. E ti ha ucciso lui, proprio colui che aveva promesso di amarti e di proteggerti.
L’unico modo per impedire che accada ad altre donne è quello di insegnare agli uomini che protezione non significa possesso, che la violenza non è mai la risposta (ma lo è il dialogo e il totale rispetto per la libertà altrui) e che non esiste giustificazione valida per un omicidio. Nessuna.
Per salvare le donne bisogna anche garantire loro protezione nei centri antiviolenza e dare la possibilità di uscire da una situazione di controllo attraverso un reddito, una casa, degli aiuti concreti.
Rispetto e protezione che devono però valere anche dopo un femminicidio.
Muore una donna e lascia spesso dei figli o dei genitori. Persone che già devono convivere con un lutto (il che è molto complicato), ma qui si ritrovano anche coinvolte in processi che purtroppo a volte terminano con condanne lievi e nessun risarcimento e la reputazione infangata ("se l'è cercata", "l'ha tradito", "era un bravo ragazzo e invece lei non si sa", "lei lo sapeva eppure stava lì lo stesso... forse per soldi"). La pace in certi casi non arriva mai, e resta invece forte la consapevolezza che "si poteva fare qualcosa... qualsiasi cosa".
Molte di loro decidono di trasformare questo sentimento in soccorso per altre persone che vivono esperienze simili e/o scrivono libri per ridare dignità alla propria madre/figlia/amica/sorella ecc., raccontandola con le sue sfaccettature e la sua umanità, e non solo come una vittima. Le famiglie protestano in piazza, raccontano, frequentano incontri… non permettono che il nome di quella donna sia dimenticato, ma che sia utile a salvarne altre.
Perché possiamo finalmente perdere quel primato di casi che non ci fa certo onore.
Consigli e approfondimenti
Stefania Prandi "Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta", ed. Settenove, 2020