La morte della donna rappresenta l’esito / la conseguenza di atteggiamenti e/o pratiche sociali misogine.
La parola femminicidio è stata usata per la prima volta nel 1992 dalla sociologa statunitense Diana Russell. L'antropologa Marcella Lagarde ha poi esteso il termine a tutte le forme di discriminazione e violenza che precedono l'assassinio vero e proprio.
Femminicidio significa dunque che la donna viene uccisa e il movente è il fatto che fosse una fidanzata, una moglie, una madre... una donna.
Risulta ancora più evidente dal fatto che a ucciderla sia stato il compagno o il partner o il marito o il convivente. Qualcuno che amava e con cui aveva una relazione e di cui voleva liberarsi. Ci tengo a precisarlo: quando viene ucciso un uomo, non si parla di "maschicidio" perché la causa è dovuta ad altro (criminalità, più che altro) e raramente capita che a compiere l'assassinio sia una donna (meno del 40% contro oltre l'80% - dati Istat del 2023). Ci tengo anche a precisare che l'uccisione di una prostituta è comunque femminicidio: è il suo corpo e il suo lavoro che infastidiscono chi lo commette.
Le vittime non hanno dunque fatto niente di terribile ma è proprio la loro presenza in quanto donne "poco ubbidienti" che dava fastidio. Così come un tradimento (vero o immaginato) o la voglia di libertà o di rispetto.
Tutte situazioni per cui, in passato, ci si lasciava, e basta.
Invece, oggi, spesso si uccide, brutalmente.
In Italia non è considerato reato autonomo (rientra negli omicidi), per cui nelle sedi istituzionali non si nomina la violenza di genere, nonostante siamo sempre ai primi posti in Europa per numero di femminicidi. Se ne contano cento all'anno e se ne parla sempre troppo poco, nonostante la numero 107 del 2023, Giulia Cecchettin, abbia sollevato un’ondata di commozione e sdegno e “rumore” che si sperava servisse a velocizzare le misure legali. E invece no. Abbiamo aspettato fino al marzo 2025 perché il Governo approvasse un disegno di legge per cui il femminicidio possa venir punito con l'ergastolo e per scoprire, a proposito di quel caso, che secondo la Corte 75 coltellate non sono "crudeltà".
E mentre i tempi del riconoscimento si allungano, quella che ha continuato a diffondersi invece sempre più velocemente è stata la narrazione del raccontare questi omicidi come raptus di follia o come gelosia: la donna morta non può più difendersi, quindi tanto vale salvaguardare l’innamorato dicendo che era disposto a tutto per lei e la cui pazienza è stata messa duramente alla prova. L’idea del pazzo istintivo e geloso ci rassicura di più del pensare che non ci sia niente di insano ma solo crudeltà contro il genere femminile nonché una violazione dei diritti umani.
Non ne posso più di questa narrazione. Diciamo le cose come stanno. Spieghiamo bene cosa significa femminicidio e usiamolo questo termine così capiremo che non si tratta di un caso sporadico di follia ma di una serie di comportamenti ben precisi e frequenti.
Lo ripeto: vieni uccisa perché sei fidanzata o moglie o madre… perché sei donna. Non conta cosa stessi facendo, come fossi vestita, che scelte di vita stessi portando avanti. Sei morta. E ti ha ucciso lui, proprio colui che aveva promesso di amarti e di proteggerti.
L’unico modo per impedire che accada ad altre donne è quello di insegnare agli uomini che protezione non significa possesso, che la violenza non è mai la risposta (ma lo è il dialogo e il totale rispetto per la libertà altrui) e che non esiste giustificazione valida per un omicidio. Nessuna.
Per salvare le donne bisogna anche garantire loro protezione nei centri antiviolenza e dare la possibilità di uscire da una situazione di controllo attraverso un reddito, una casa, degli aiuti concreti.
Rispetto e protezione che devono però valere anche dopo un femminicidio.
Muore una donna e lascia spesso dei figli o dei genitori. Persone che già devono convivere con un lutto (il che è molto complicato), ma qui si ritrovano anche coinvolte in processi che purtroppo a volte terminano con condanne lievi e nessun risarcimento e la reputazione infangata ("se l'è cercata", "l'ha tradito", "era un bravo ragazzo e invece lei non si sa", "lo sapeva com'era lui eppure stava lì lo stesso... forse per soldi"). La pace in certi casi non arriva mai, e resta invece forte la consapevolezza che "si poteva fare qualcosa... qualsiasi cosa".
Molte di loro decidono di trasformare questo sentimento in soccorso per altre persone che vivono esperienze simili e/o scrivono libri per ridare dignità alla propria madre/figlia/amica/sorella/parente raccontandola con le sue sfaccettature e la sua umanità, e non solo come una vittima. Le famiglie protestano in piazza, raccontano, frequentano incontri… non permettono che il nome di quella donna sia dimenticato, ma che sia utile a salvarne altre.
Perché possiamo finalmente perdere quel primato che non ci fa certo onore.
Consigli e approfondimenti
Stefania Prandi "Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta", ed. Settenove, 2020